Nel museo diocesano della città di Fermo è custodita la Casula di San Tommaso Becket, frutto dell’arte tessile di origine araba datata al 1116, dono alla Chiesa fermana della Madre del Santo in ricordo dell’amicizia tra San Tommaso e il vescovo fermano, Presbitero. Tommaso Becket (ingl. Thomas Becket; Londra, 21 dicembre 1118 – Canterbury, 29 dicembre 1170) è stato un arcivescovo cattolico inglese. Lord Cancelliere del Regno d'Inghilterra dal 1154, venne eletto arcivescovo di Canterbury e primate d'Inghilterra nel 1162: ostile ai propositi di Enrico II di ridimensionamento dei privilegi ecclesiastici, venne ucciso (forse per ordine del sovrano) nel 1170. Nel febbraio 1173 venne proclamato santo e martire da papa Alessandro III durante un soggiorno dello stesso a Segni nei pressi di Anagni. Nato a Londra dal mercante Gilbert Becket di Thierville e Matilda di Mondeville, stabilitisi in Inghilterra sotto Guglielmo il Conquistatore, venne avviato sin dall'infanzia alla carriera ecclesiastica: dopo la prima formazione ricevuta presso l'abbazia di Merton, approfondì gli studi a Parigi e, tornato in patria, entrò a servizio dell'arcivescovo di Canterbury Teobaldo di Bec.
Ranier Zen (o Reniero Zeno) (Venezia, ... – Venezia, 7 luglio 1268) fu il quarantacinquesimo doge della Repubblica di Venezia dall'8 gennaio (o 15 o 25) 1253 alla morte. Figlio di Pietro e di madre ignota, il suo dogado fu contrassegnato da scontri con Genova per il predominio del commercio orientale. Fu uomo deciso e risoluto e comandò la Repubblica con decisione e capacità. Raniero Zeno, pur con una giovinezza oscura, fu uomo di indiscusso valore e capacità e presto ascese alla ribalta delle cronache del suo secolo. Le prime fonti ce ne parlano come uomo di diplomazia con numerosi incarichi in Francia ed in Italia (dove incorse persino nella scomunica papale per aver sobillato Bologna a non pagare i tributi dovuti) ma anche come un abile combattente. Nel 1240 era al fianco del doge Jacopo Tiepolo nell'assedio di Ferrara e nel 1244 fu fatto capitano da mar (comandante della flotta). Divenne più volte podestà di molte città della terraferma italiana accrescendo la sua fama di uomo saggio e retto. Sposatosi con Aluica di Prata, non si sa quanti figli ebbe. Alla morte di Marino Morosini concorse al dogato con Marco Ziani e vinse con 21 voti su 41 disponibili. Al momento dell'elezione era podestà a Fermo e rientrò in città solo dopo circa un mese. Per festeggiare la sua elezione s'organizzò una grande giostra di cavalieri che richiamò l'interesse internazionale e rimase a lungo nella memoria del popolo, come fanno capire le cronache dell'epoca, entusiaste di tale insolito spettacolo. Se il dogado cominciò bene il compito dello Zen si fece subito in salita. Nel 1256 – 1259 la Marca Trevigiana fu scossa dalla guerra tra il papa, sostenuto da Venezia e da Treviso, ed Ezzelino da Romano. Solo con la morte di quest'ultimo, nel 1259, la situazione si placò un po'. Risolta la situazione in Italia esplose subito la guerra con Genova. Le due potenze marinare, divise sul fronte economico – politico, si trovarono a discutere sull'appartenenza del monastero di S. Saba nella città di Tiro: nel 1255 i genovesi ne presero possesso saccheggiando il quartiere veneziano. Lorenzo Tiepolo, futuro doge e all'epoca ammiraglio della flotta, intervenne e nel 1257 distrusse la flotta genovese e pure il monastero, portando a Venezia molte delle sue parti (alcune colonne sono ancor oggi visibili presso il Palazzo Ducale, davanti alla Porta della Carta). Genova, sconfitta, decise allora di abbattere l'impero di Costantinopoli, filo veneziano, sostituendo la dinastia allora regnate con quella dei Paleologo, dinastia a cui apparteneva il noto generale Michele II Paleologo (trattato di Ninfeo, 1261). La caduta di Costantinopoli bloccò l'accesso al Mar Nero a Venezia. Venezia rispose armando poderose flotte al comando di Gilberto Dandolo e spedendole contro Genova: due importanti vittorie (Morea 1262 e Settepozzi, 1263) migliorarono la situazione ma non mutarono in modo definitivo la questione. Giunti ad un punto morto nel 1265 Venezia stipulò una tregua quinquennale e, nel 1270, una pace definitiva: pur con numerosi privilegi non aveva più il predominio dei commerci, diviso con Genova. All'epoca Renier Zen era già morto. Sarebbe comunque riduttivo citare questo dogado solo per le numerose guerre combattute; occorre ricordare l'approvazione degli Statuta che, in 129 articoli, crearono una legislazione marittima efficace e moderna. Durante il dogado si cercò di ridurre ogni possibile frattura tra classi sociali, dando origine a quell'armonia tra il popolo e l'aristocrazia che terrà salda la Repubblica veneziana, oligarchica, sino alla sua fine. Remiero Zeno morì il 7 luglio 1268.
L'Adorazione dei pastori è un dipinto a olio su tela (300x192 cm) realizzato nel 1608 dal pittore Pieter Paul Rubens. Fu riconosciuto agli inizi del Novecento dal grande storico Roberto Longhi, che lo identificò anche come La notte. È conservato nella Pinacoteca civica di Fermo. Commissionato a Rubens da padre Flaminio Ricci e realizzato in breve tempo (circa tre mesi) per la chiesa di San Filippo Neri di Fermo, il dipinto appare come un omaggio del pittore al collega Caravaggio, che il pittore aveva avuto modo di conoscere artisticamente a Roma nei suoi dieci anni di studio in Italia. In realtà, molte suggestioni sembrano arrivare al pittore dal dipinto con analogo soggetto del Correggio realizzato negli anni 1525-1530. Viene rappresentato il momento in cui i pastori raggiungono la capanna della natività: la Vergine è rappresentata mentre mostra il suo bambino ai pastori, alle sue spalle San Giuseppe e a sinistra della composizione due figure maschili e due figure femminili. Recentemente si è ipotizzato come la figura femminile anziana possa essere identificata come la levatrice incredula del protovangelo di Giacomo, nell'atto di alzare al cielo le mani sanate. Un turbinio di quattro angeli sorregge un cartiglio con l'annuncio della nascita del Salvatore.
GALEAZZO MARIA Sforza, duca di Milano. - Primogenito di Francesco, conte di Tricarico, e di Bianca Maria Visconti, figlia legittimata del duca di Milano Filippo Maria, nacque il 14 genn. 1444 a Fermo, nella rocca chiamata Girone o Girifalco e venne battezzato il 17 marzo. All'indomani della nascita, lo Sforza aveva inviato un messo a Milano per trasmettere la notizia al suocero e sapere quale nome volesse dare al nipote. Il Visconti decise per Galeazzo, in ricordo dell'avo suo Galeazzo (II), conte di Pavia, evitando abilmente ogni riferimento alla successione al trono ducale di Milano, pur riconoscendo in tal modo al neonato l'appartenenza al casato visconteo.
Fermo e la regina Cristina Nel 1654 la regina di Svezia Cristina (1626-1689), da tempo attratta dal cattolicesimo, decise di lasciare la fede luterana e con essa il trono del Paese scandinavo. Dopo un lungo viaggio attraverso l’Europa si stabilì a Roma, dove si circondò di ecclesiastici, artisti, studiosi, medici e persino alchimisti. Ciò che sorprende è che, per un curioso intreccio di destini, molti di questi personaggi erano originari di Fermo. Quando la regina giunse a Roma, Fermo godeva di uno status privilegiato all’interno dello Stato della Chiesa. Era infatti, oltre che sede arcivescovile, la città “dominante” (così veniva chiamata) di un vasto territorio comprendente circa cinquanta castelli, detto a sua volta “Stato di Fermo”. Non era inclusa pertanto nella provincia della Marca, ma era direttamente soggetta al pontefice, che la affidava formalmente al proprio cardinale nipote, insignito della carica di governatore. Inoltre, per secolare tradizione, Fermo era una città di studi: sulla sua piazza centrale prospettava, accanto alla sede comunale, il palazzo dell’Università, riconosciuta ufficialmente dal 1585 ma operante dal XIV secolo, mentre poco distante da essa sorgeva il collegio dei Gesuiti, creato nel 1609. Non vi mancavano pertanto uomini di notevole cultura. La regina e il cardinale L’ex regina, che dopo la conversione volle chiamarsi Cristina Alessandra Maria, fu accolta trionfalmente nella capitale del cattolicesimo e trattata sempre dai pontefici come se fosse ancora una sovrana regnante. Insediatasi nel 1656 a Palazzo Farnese, vi aprì un’Accademia reale in cui si coltivavano la musica, il canto, il teatro, la poesia, la filosofia e le scienze del tempo. Cristina aveva allora ventinove anni, modi considerati mascolini e una bellezza abbagliante. Fu allora che conobbe il cardinale fermano Decio Azzolino con il quale la vox populi le attribuì una lunga relazione sentimentale. È certo comunque che egli curò il vasto patrimonio dell’ex sovrana dal 1659 sino alla morte. Decio Azzolino (o Azzolini, 1623-1689) era detto “juniore” per distinguerlo dall’omonimo “seniore”, zio del primo e segretario di Stato di papa Sisto V. Appartenevano entrambi a una delle più importanti famiglie della nobiltà fermana, di cui resta oggi in città il palazzo dal magnifico cortile rinascimentale. Laureatosi all’Università di Fermo, percorse anch’egli, come lo zio, una brillante carriera ecclesiastica che lo portò alla porpora cardinalizia a trentuno anni, nel 1654, e alla segreteria di Stato nel 1667, ufficio che riuscì a mantenere sotto tre pontefici. Che genere di legame unì per tutta la vita la coltissima regina nordica con l’ecclesiastico fermano così ben introdotto nei Sacri Palazzi? Fu soltanto un’amicizia “platonica” cementata dai comuni interessi culturali e religiosi? È difficile rispondere a queste domande perché la copiosa corrispondenza tra i due fu distrutta dallo stesso cardinale dopo la morte della regina: si salvarono solo delle lettere a lui indirizzate da Cristina durante un viaggio in Svezia compiuto nel 1666-68. Certo è che le visite di Decio Azzolino alla regina furono, almeno per un periodo, così numerose che il papa dovette intervenire per pregare il cardinale di limitarle. In una delle sue superstiti missive, Cristina scrive a Decio che gli scrupoli religiosi non le impediscono di volergli bene “sino alla morte”, e aggiunge: “Dal momento che la pietà di Dio le impedisce di essere il mio amante, la sollevo dall'essere mio servo, come io dall'essere sua schiava”. Questo singolare amore tra la regina e il cardinale sarebbe durato davvero fino alla morte, che per entrambi giunse nel 1689. Decio Azzolino fu presente al suo capezzale quando Cristina si spense in aprile, nominandolo suo erede, ed egli stesso morì nel giugno successivo, lasciando gli ingenti beni che erano stati della regina al lontano parente Pompeo Azzolino. Consapevole della necessità di dotare la sua città natale di una raccolta libraria di uso pubblico, l’anno precedente egli aveva finanziato la realizzazione di quella che si sarebbe chiamata Sala del Mappamondo, primo nucleo della Biblioteca comunale di Fermo, dedicandola proprio a Cristina. La corte “fermana” La presenza di tanti fermani alla corte romana dell’ex sovrana di Svezia (su cui ha fatto luce recentemente la studiosa Vera Nigrisoli Warnjelm) iniziò quando il cardinale Azzolino vi introdusse uomini a lui legati da vincoli di parentela o di cittadinanza. I primi ad esservi ammessi furono il medico Cesare Macchiati e il capitano Lorenzo Adami. Macchiati, nato a Carassai nel 1597, fu medico personale della regina e l’accompagnò in due viaggi da lei compiuti in Svezia. Macchiati insegnò Medicina pratica alla Sapienza di Roma dal 1670 al 1674 e morì nel 1675, mentre era ancora al servizio della regina. Lorenzo Adami, cugino di Decio Azzolino, nato a Fermo nel 1630, apparteneva a una famiglia di antica nobiltà e dal 1658 ricoprì l’incarico di capitano delle guardie della regina Cristina, compiendo anche missioni a suo nome in Svezia. Ignazio Adami, fratello di Lorenzo, dopo essere stato scudiero della sovrana, ebbe un incarico analogo, come tenente delle guardie svizzere di Cristina dal 1680 alla sua morte. Fermani erano anche diversi altri personaggi, di cui si conosce solo il nome. Successore di Macchiati come medico della regina Crisitina fu il fratello di Giovanni Antonio, Romolo Spezioli (1642-1723), nato anch’egli a Fermo, nella cui Università si laureò in medicina e filosofia nel 1664, esercitando poi la professione a Grottammare, Ripatransone e Jesi. Fu chiamato a Roma dal cardinale Azzolino, di cui era lontano parente, nel 1675. Presto riconosciuto per le sue eccellenti qualità professionali, divenne medico personale non solo di Azzolino e della regina Cristina, ma anche di numerosi nobili e prelati romani. Uno di essi, il cardinale Ottoboni, diventato papa nel 1689 con il nome di Alessandro VIII, lo nominò suo archiatra. Dopo la morte del pontefice, avvenuta due anni più tardi, Spezioli si dedicò all’insegnamento della medicina e al sacerdozio. Volle essere sepolto nella Chiesa Nuova dei Padri di S. Filippo Neri, dove riposava già il suo benefattore Decio Azzolino e dove si erano celebrati i solenni funerali di Cristina. Prima della morte Romolo Spezioli nominò suoi eredi universali i Gesuiti di Fermo. Già nel 1705 aveva donato alla città di Fermo i suoi libri di medicina e filosofia, a patto che il Comune si impegnasse ad aprire al pubblico la Biblioteca, come avrebbe voluto il cardinale Azzolino; poi con testamento lasciò anche tutti gli altri volumi, per lo più di argomento religioso. La sua raccolta di libri di medicina costituisce oggi uno dei fondi più importanti e originali della Biblioteca Civica di Fermo.
Teodorico Pedrini era un bravo musicista. Ma considerò la musica, e la sua padronanza della musica, subordinata, anzi strumentale alla buona conduzione e al successo della sua missione pastorale. E’ probabile che il suo essere un buon musicista sia stato dapprima il motivo per cui fu scelto per andare in Cina per conto della Congregazione della Missione, e poi la sua chiave per entrare nelle grazie dell’Imperatore Kangxi, per aprire le porte del cuore e della mente di questo grande Imperatore cinese, che sicuramente era appassionato delle arti, della pittura e della musica, come di ogni altra forma di vivacità intellettuale che proveniva dall’Occidente. Doveva aver già studiato musica dai Filippini a Fermo quando, nel 1692 si trasferì a Roma e lì rimase per dieci anni, con la frequenza al Collegio Piceno fino al 1697, e l’entrata nella Congregazione della Missione nel 1698 ed i voti nel 1700, nello stesso anno in cui il marchigiano Gianfrancesco Albani divenne Papa Clemente XI. Erano gli anni in cui Arcangelo Corelli, dopo aver studiato a Bologna si traferì a Roma, e fu dapprima alla corte di Cristina di Svezia e quindi nella cancelleria del Cardinale Ottoboni, e frequentando gli ambienti del Collegio Piceno (ora Pio Sodalizio dei Piceni), ricevette diversi incarichi per comporre musiche per la Basilica di Loreto. Sono quindi gli stessi ambienti marchigiani a Roma che frequentò Teodorico Pedrini in quegli anni, ed è facile, oltre che suggestivo, supporre, benchè manchino prove documentali, che Pedrini fu probabilmente allievo del grande musicista ravennate. In ogni modo il suo rapporto con Corelli fu molto coinvolgente dal punto di vista squisitamente musicale, se è vero che una delle prime cose che Teodorico fa quando si stabilisce a Pechino è richiedere alla Casa Madre della Congregazione di Roma, che gli spediscano le ultime composizioni del Maestro, quelle pubblicate dopo il 1701, la cui influenza si riconosce nello stile correttissimo e cristallino, non senza la giusta dose di cratività e originalità, delle sue opere successive. Appena morto il Card.Tournon a Macao, nel giugno 1710, l’Imperatore Kangxi volle informarsi su quali fossero le competenze artistiche o scientifiche dei nuovi missionari arrivati, e saputo che Pedrini era un bravo musicista e Matteo Ripa un pittore, volle subito chiamarli a sé a Pechino. E così quando il 6 febbraio del 1711 arriva a Pechino, Teodorico Pedrini, primo missionario non gesuita a stabilirsi alla corte Qing, fu subito chiamato da Kangxi a dare lezioni di musica a tre dei suoi numerosi figli, a sistemare gli strumenti occidentali lasciati a palazzo dai missionari fin lì succedutisi (“per accordare uno strumento non serve la lingua, ma l’orecchio” sosteneva con lucida banalità l’Imperatore) nonché a portare a termine una impegnativa opera di Teoria Musicale iniziata negli anni precedenti. Si tratta dello Xubian, un preziosissimo volume di Teoria Musicale, che costituiva la parte finale di un’enciclopedica Storia e Teoria della Musica Orientale ed Occidentale intitolata Lülu ZhengYi, che a sua volta era una componente di una enciclopedia delle arti e delle scienze, che l’Imperatore Kangxi aveva commissionato ad una Accademia appositamente costituita. Lo Xubian era stato iniziato anni prima da Tomàs Pereira, gesuita portoghese, morto improvvisamente nel dicembre 1708, e non appena l’Imperatore ebbe Pedrini a corte gli chiese di completare il lavoro rimasto interrotto, lavoro che nel novembre 1714, stando ad una lettera che Pedrini scrisse al papa Clemente XI, stava ormai avviandosi a conclusione. Si può affermare che i due autori, Pereira e Pedrini, mediante il Lülu ZhengYi-Xubian, hanno introdotto per la prima volta in maniera organica e sistematica la Teoria musicale occidentale in Cina, abbiano fatto conoscere, inquadrandoli in un sistema teorico, ovviamente solo all’elite intellettuale ed artistica cinese, concetti come la scala cromatica, il sistema modale Maggiore /Minore, la solmizzazione a sette note. E’ evidente che si tratta di un’opera importantissima nella storia dei rapporti culturali oriente-occidente, ispirata da uno dei più colti regnanti orientali e realizzata da due europei che, oltre che essere missionari impegnati, erano anche valenti musicisti: Tomàs Pereira, nato a Braga nel 1645 e Teodorico Pedrini, nato a Fermo nel 1671. Ma l’importanza di Teodorico Pedrini come divulgatore della musica occidentale in terra di Cina non finisce qui. Nel 1935 furono ritrovate nel fondo Beitang, della Biblioteca Nazionale Cinese, al numero di catalogo 3397, le 12 Sonate per violino solo e basso, opera Terza, del Nepridi, chiaro anagramma del cognome di Pedrini. Sono delle Sonate che risentono notevolmente dell’influenza di Corelli e sono le uniche opere composte da un occidentale in Cina nel XVIII secolo, o almeno le uniche di cui ci sia rimasta testimonianza. La dicitura Opera Terza, fa suppore che vi siano stati altri due corpus di composizioni dello stesso autore, ma non sono state mai, o almeno non fino ad ora, ritrovate. Non è ancora chiaro come datare queste composizioni, ma in una lettera del 1711 Pedrini racconta di aver detto all’Imperatore che aveva con sé in quel momento delle musiche composte da lui; non si sa se fossero queste o altre Sonate, né se le aveva composte quando era ancora in Italia. Nel 1735 salì al trono Qianlong, il terzo imperatore cinese con cui Pedrini ebbe a che fare, il quale lo richiamò a corte, dopo alcuni anni in cui il nostro aveva diradato la sua presenza a palazzo e si era dedicato alla sua opera di missionario, e gli chiese di riprendere la sua attività di -diremmo oggi- “maestro di cappella” e restauratore di strumenti, ma Teodorico era ormai piuttosto anziano, 65 anni, e provato dalle molteplici esperienze vissute a Pechino e la sua collaborazione non durò molto. Probabilmente suona conferma della sua grande importanza anche come musicista, oltre che come missionario, il fatto che oggi i maggior esperti al mondo di Teodorico Pedrini siano due musicologi. I suoi detrattori lo chiamavano con sufficienza e quasi disprezzo “il musico” e qualcuno aveva anche insinuato l’idea che stesse a corte per suonare e basta, ma anche per contestare questa diceria, il Cardinale Giuseppe Sacripante, Prefetto della Congregazione di Propaganda Fide, ebbe modo di ribadire la sua piena fiducia e considerazione nel Pedrini missionario, confermando che la musica era, per lui e per la sua Congregazione, un mezzo e non un fine.